«Ancora oggi si constata la presenza della cultura dello scarto […]. Tutto questo chiede non solo di tutelare i diritti delle persone con disabilità e delle loro famiglie ma ci esorta a rendere più umano il mondo rimuovendo tutto ciò che impedisce loro una cittadinanza piena, gli ostacoli del pregiudizio, e favorendo l’accessibilità dei luoghi e la qualità della vita, che tenga conto di tutte le dimensioni dell’umano».

Queste sono le parole del Messaggio di papa Francesco in onore della Giornata Mondiale delle persone con disabilità del 3 dicembre 2019.

Negli ultimi vent’anni, soprattutto grazie proprio a Papa Francesco e al Concilio Vaticano II, la concezione della disabilità all’interno della Chiesa cattolica è cambiata radicalmente.

Precedentemente seguiva il modello medico, ovvero considerava questa condizione un problema clinico. Questo è uno degli errori tipici e, allo stesso tempo, più gravi quando si parla di disabilità: identificare la persona solo con la sua malattia.

La Chiesa ha fortunatamente cambiato la propria mentalità, partendo proprio dal Vangelo. Importantissimo a riguardo è il passo 9, versetti 1-3 del Vangelo di Giovanni:

Passando vide un uomo, che era cieco fin dalla nascita. I suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: <Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato ceco?> Gesù rispose: <Né lui ha peccato, né i suoi genitori; ma è così, affinché le opere di Dio siano manifestate in lui.>

Queste parole sono forse le uniche che possono rispondere alla domanda fondamentale di molte persone con disabilità e dei loro cari: “Perché?”

Nel messaggio di quest’anno in occasione della giornata internazionale delle persone con disabilità Papa Francesco ha ribadito, parlando direttamente alle persone con disabilità, che “il Battesimo rende ognuno di noi membro a pieno titolo della comunità ecclesiale e dona a ciascuno, senza esclusioni né discriminazioni, la possibilità di esclamare: <Io sono Chiesa> … Per quel che concerne la Chiesa, la peggiore discriminazione è la mancanza di attenzione spirituale, che a volte si è manifestata nel diniego di accedere ai Sacramenti, sperimentato purtroppo da alcuni di voi”.

Bisogna infatti ricordare che molti parroci si sono spesso rifiutati di concedere i Sacramenti alle persone con disabilità, ritenendole non coscienti e non capaci di intendere. Così facendo hanno negato loro dei diritti e non li hanno considerati vere e proprie persone.

Oggi invece nella CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, esiste un servizio ad hoc proprio per le persone con disabilità: il Servizio Nazionale per la Pastorale delle Persone con Disabilità. Questo mira non solo a un’integrazione, ma a un vero e proprio progetto di vita, con tanto di avviamento al mondo del lavoro e di autodeterminazione. Rientrano infatti all’interno della sua competenza specifica tutti gli ambiti in cui le persone con disabilità vivono e sono accolte, ad esempio: la famiglia, le parrocchie, luoghi del tempo libero o dell’aggregazione, i centri diurni sociali e riabilitativi, Case famiglia. Molto importante è il Dopo di Noi, ovvero l'attuazione di un "progetto di vita" per il momento di cui verranno a mancare i genitori della persona con disabilità. Fino a pochi anni fa si considerava l'istituzionalizzazione (ricovero in istituti socio-sanitari) l'unica soluzione possibile, mentre oggi si cerca invece di ricreare situazioni abitative più simili agli ambienti familiari.

Quello che si cerca di ottenere, grazie anche a un crescente desiderio di fare rete, è l’inclusione.

La prima cosa a cui si pensa a questo punto è il superamento delle barriere architettoniche.

In realtà, tutto dovrebbe partire dall’eliminazione di ogni tipo di pregiudizio: il pregiudizio comunitario, che vede, con un atteggiamento di pietismo, l’inclusione solo come una gesto di carità; il pregiudizio cognitivo, per cui si accoglie la persona in funzione del deficit; il pregiudizio religioso, che consiste nel vedere le persone con disabilità come angeli, quindi senza necessità di sacramenti.

Un’altra fase indispensabile per l’inclusione è la conoscenza della persona: il suo carattere, le sue necessità, il suo modo di comunicare. Ci sono diverse modalità di comunicazione, che variano per ogni tipo di disabilità. Per esempio per le persone che soffrono di sordità è possibile tradurre la liturgia in LIS (la lingua dei segni italiana), come per esempio si fa già per le messe del Vaticano, mentre per una persona che soffre di cecità sarà necessario descrivere il luogo e, in caso di lettura autonoma, tradurre in Braille. È invece più difficile trovare un metodo di comunicazione con persone che soffrono di problemi del neuro sviluppo, come ad esempio la sindrome di Down o l’autismo. È possibile usare in questi casi la CAA, ovvero la Comunicazione Aumentativa Alternativa. È impossibile pensare a un’inclusione senza prima essersi informati, anche per quanto riguarda le abitudini e le necessità della persona in questione.

Questo vale naturalmente non solo per la liturgia, ma anche per la catechesi.

“...Sono una ragazza speciale e ho una sorella gemella, anche lei speciale. Sono una catechista della mia parrocchia. Proprio l’8 ho portato i miei ragazzi alla cresima. Sono felice di aiutare i miei ragazzi a capire come amare Gesù e Maria”.

Queste sono le parole di una ragazza con disabilità, che ha seguito il catechismo per la comunione e la cresima qualche anno fa e che ora, come catechista, prepara altri ragazzi.

Questa è vera inclusione.

Non bisogna pensare però che l’inclusione sia diffusa su tutto il territorio.

Purtroppo dilaga ancora una grande ignoranza sul tema della disabilità, come dimostrato da una recente indagine della CEI sulla mappatura delle diocesi riguardo alla disabilità, nell’ambito della quale hanno risposto solo 142 diocesi (63% di quelle presenti nel nostro Paese). Di queste solo poco più del 60% delle parrocchie sono risultate inclusive.

Come fare quindi a promuovere l’inclusione? Forse la prima cosa da fare è smettere di parlare di “disabili”, capendo che dire questo e dire “persone con disabilità” è notevolmente diverso. Impariamo a individuare la persona dietro la malattia, impariamo ad ascoltarla e a portare in primo piano le sue volontà, i suoi desideri e il suo carattere. Impariamo ad amare incondizionatamente, così forse un giorno saremo in grado di chiamarle semplicemente per nome.

Annamaria Bertoni



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