Negli scorsi giorni mi è capitato di leggere di una vicenda accaduta a Manuel Bortuzzo famoso atleta di nuoto ed ex concorrente del format televisivo Grande Fratello Vip.

"15 minuti dopo questa foto non camminavo più. Questo è stato il mio ultimo ballo", afferma Manuel dopo che gli hanno mostrato una foto di lui che balla, poco prima della tragedia che lo ha colpito, il 3 febbraio 2019 quando a Roma – a causa di uno scambio di persona – è stato raggiunto da un colpo di pistola che gli ha cambiato per sempre la vita.

La reazione di Manuel che piange lacrime di nostalgia guardando il suo sé stesso di prima, il suo corpo che poteva ancora camminare, è stata molto criticata soprattutto da persone con disabilità.

Premetto che io non seguo il Grande Fratello dai tempi della prima edizione, ormai più di 20 anni fa, ma i commenti, gli articoli, gli spoiler, ora che sono accessibili tramite social volano, e quindi anche io, volente o nolente, in questi mesi ho letto molto su Manuel Bortuzzo.

E ho letto anche le critiche che gli sono state mosse riguardo questo sfogo, sul fatto che probabilmente non potrà più ballare come faceva nella sua vita da normodotato. È stato sottolineato che così facendo lui non mostrasse la “bella faccia” della disabilità.

Ecco, su questo concetto mi vorrei soffermare: perché si pensa che una persona con una disabilità, di qualunque tipo, debba per forza mostrare il lato forte, il lato bello, il lato determinato, nonostante la sfortuna, nonostante il caso?

Con la condizione di disabilità io ci sono nata, al punto che per me, per i primi anni, la paralisi cerebrale infantile era per me la “normalità”. Io non mi sentivo diversa, ho purtroppo imparato crescendo, in che cosa ero e sarò sempre diversa, però se uno ci nasce in un certo modo, credo sia più facile accettarlo, o per lo meno adattarsi.

Per una persona abile che subisce un incidente e perde funzionalità in qualche cosa, è certo più difficile, se non difficilissimo. È molto dipende dal carattere e dalle motivazioni della persona stessa.

Perciò io, la reazione di Manuel, il suo comportamento, pur con tutti i difetti del caso, lo capisco.

Non mi sento di giudicare o dire che Manuel nostra la brutta faccia di una medaglia, la disabilità, che comunque la giri è difficile da accettare. È pesante, è un’incognita, è come un ospite non sempre gradito. È vero: ci sono molte persone con disabilità che reagiscono in maniera positiva, determinata e resiliente, ma non vale per tutti così.

Manuel è uno sportivo, potrebbe fare diversamente, ma credo che un po’ per la giovane età, un po’ la sua impulsività, un po’ la notorietà e l’esposizione mediatica eccessiva lo abbiano portato a posizioni, anche estreme, riguardo la sua condizione odierna di persona in carrozzina.

La verità è che ognuno di noi deve fare un proprio percorso di accettazione della disabilità e delle proprie difficoltà, non tutti però ci riescono. Alcuni non arrivano mai alla consapevolezza che, nonostante quello che è, o fa, il nostro corpo, il nostro “io” rimane sempre lo stesso.

Perché mai non si può rimpiangere il proprio camminare su due piedi, perché non si può dire che si preferisce pensare alle Olimpiadi che ai giochi Paraolimpici?

Perché deve essere “brutto” mostrare una fragilità, una debolezza, un rifiuto della disabilità?

Le persone parlano sempre di inclusione, di disabilità che non deve essere vista come un limite, di tutte le battaglie per i  diritti nella società, poi sono i disabili stessi, i primi a scagliarsi contro chi dovrebbero capire o mostrare un po’ di empatia.

Anche io, come Manuel, a volte piango per ciò che non avrò mai, per ciò che non potrò mai fare.

Finché ero solamente "me", avevo raggiunto un certo equilibrio, una certa dose di serena accettazione, poi è nata mia figlia, e l’essere madre ha rimesso tutto in discussione. 

Mi ha messo violentemente di fronte a quel limite che è solo mio. Mia figlia non ne ha, fisicamente parlando, io però non posso correre con lei, non posso pattinare sul ghiaccio con lei, certo posso fare tante altre cose, ma non la maggior parte di quelle che fa lei con l’energia giocosa e illimitata di una bambina di 5 anni.

E allora anche io ogni tanto mi lascio andare, piango, mi lamento, mi autocommisero. Non sarei umana se non lo facessi e non vorrei essere mai giudicata per questo.
Credo che tutto nasca dal fatto che ci si aspetta, complici i social e gli influencer, che una persona disabile, un’attivista che opera in favore delle minoranze, mostri sempre di essere al top, di fare tutto senza sentire la fatica del limite, del dover chiedere aiuto. Come se avere una disabilità fosse solo una cosa accidentale capitata e non qualcosa con cui dover convivere ogni giorno, bello o brutto, che sia.

Quindi restiamo umani e non giudichiamo, che il cammino è lungo e non si sa cosa ci riserva il futuro, e su chi potremo contare.

 

Samanta Crespi

(Foto libere o proprie)

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